Missione Humanitas
Quando Fondazione Archè ci ha proposto diverse associazioni con cui partire per un’esperienza umanitaria, Change Onlus ci ha subito colpito, diventando una delle prime scelte, sia come tempistiche, visto che richiedeva una partecipazione di 3-4 settimane, sia per la meta, il Madagascar.
Mai avremmo però creduto di vivere una tale esperienza, che ci arricchisse così tanto dal punto di vista umano e che ci facesse scoprire parti del nostro carattere fino ad ora celate.
Quando diciamo alle persone che siamo state in Madagascar, tutti pensano al mare, all’isola di Nosy Be, famosa meta turistica ben nota per il mare cristallino e per le spiagge bianche paradisiache. Noi invece il mare non l’abbiamo visto, se non dall’aereo mentre arrivavamo sull’isola più grande dell’Africa.
Alloggiavamo ad Ampefy, cittadina a 20 km dal centro geografico del Madagascar e a circa 5 ore di macchina dalla capitale, Antananarivo o “Tana”, così chiamata dai Malgasci. Questa cittadina si trova vicino al lago Itasy, il quale rappresenta una importante fonte di acqua; ciò permette ai villaggi limitrofi di avere questo prezioso bene primario, e di mantenere una attività agricola produttiva anche durante la stagione secca, da aprile a ottobre.
Le nostre attività si svolgevano al Centro Polispecialistico St. Paul, fondato nel 2014 dall’associazione guidata dal dottor Paolo Mazza. Il centro ha diverse attività ambulatoriali, durante le quali noi assistevamo i medici locali durante le visite, un laboratorio analisi e un centro di radiologia diagnostica.
La dolce pediatra Seheno ci coinvolgeva nelle visite dei bambini e dei neonati, a cui davamo in dono le bambole pigotte donateci da Humanitas prima di partire. Sicuramente molto interessante era il metodo di work-up diagnostico in un paese con risorse molto limitate.
Una volta un bambino aveva l’asma e Seheno doveva somministrargli il Ventolin con l’inalatore e teoricamente serviva anche il distanziatore, per avere una più efficace inalazione del farmaco. Il distanziatore però non c’era, perché costava troppo, quindi lei ha tagliato il collo di una bottiglia, per poi utilizzarlo come distanziatore; in questo modo, il bambino ha potuto continuare la terapia anche a casa, evitando altri attacchi di asma.
Il medico di base Jean Aimè era un caro medico pensionato che, per arrivare al centro, camminava ogni giorno 20 km, dimostrando così la sua dedizione al suo lavoro e ai suoi pazienti.
Le ostetriche ci hanno fatto partecipare alle visite di follow up delle donne gravide, e utilizzare l’eco per misurare diversi paramenti, come la circonferenza della testa, la lunghezza del femore, e il battito cardiaco fetali. Abbiamo anche assistito al nostro primo parto, molto diverso probabilmente da quelli che vedremo in Italia: infatti, nella cultura malgascia, la puerpera durante il parto deve sopportare tutto il dolore senza lamentarsi, poiché altrimenti viene considerato di malaugurio per il nascituro.
Visto che la maggior parte della popolazione parla malgascio, e solo la parte più istruita francese, era difficile comunicare con i pazienti. Nonostante questo, essi erano sempre molto aperti e sorridenti nei nostri confronti, e spesso bastava un “salama/manaona”, rispettivamente ciao/buongiorno, per ricevere in cambio un sorriso.
Le attività che abbiamo preferito e a cui abbiamo preso parte più volte sono state quelle del progetto di nutrizione, nel quale con gli agenti nutrizionali ci recavamo nei villaggi limitrofi e remoti a distribuire farine arricchite, moringa e Plumpy’nut alla popolazione pediatrica, per debellare lo stato di malnutrizione che affligge non solo questa regione, ma tutto il Madagascar.
L’attività consisteva nel misurare il peso e l’altezza dei bambini, riportandoli nei vari registri di monitoraggio, e, in base alla circonferenza del braccio e il BMI (indice di massa corporea), individuare la categoria di denutrizione a cui appartenevano i bambini: lieve, moderata e severa. In base a questo, provvedevamo a distribuire un’adeguata quantità di farina che potesse coprire il fabbisogno di alcune settimane. Purtroppo ci è stato riferito che, nonostante in molti bambini si notasse un miglioramento, in altri casi la farina veniva spartita tra tutti i componenti della famiglia, perdendo così l’efficacia del progetto.
Questi erano i momenti in cui entravamo a stretto contatto con la popolazione malgascia; entravamo nelle loro case, se così possono essere definite, spesso caratterizzate da una sola stanza per tutta la famiglia, e ci veniva offerto cibo, spesso riso e verdure, perché per loro era un onore avere un “vazah”, straniero, in visita. I bambini, quando ci vedevano, ci salutavano con un “Bonjour vazah”, sorridendo e venendoci incontro.
Visitare i villaggi dell’entroterra ci ha permesso diverse volte di assistere alla Famadihana, la festa di riesumazione dei morti, tipica cerimonia della stagione invernale (giugno-settembre). È una festa che dura circa una settimana, in cui si vuole creare un dialogo tra il mondo dei vivi e quello dei morti: viene aperta la tomba del defunto e se ne prelevano le spoglie, che vengono poi portate a casa e avvolte in lenzuola nuove comprate appositamente per l’occasione. Nei giorni successivi, si balla e si gioisce girando per tutto il villaggio, portando la salma sulle spalle.
In occasione di una di queste cerimonie, siamo state invitate a ballare con tutti i familiari e al pranzo a casa del figlio del defunto, colui che aveva organizzato la festa, dove ci è stato offerto riso e carne di zebù, sacrificato apposta per l’occasione. Il figlio del defunto era onorato ad averci lì perché suo padre non aveva mai avuto occasione durante la vita di incontrare degli stranieri e la nostra presenza è stata vista come un segno di buon auspicio per tutta la famiglia.
Di questo popolo ci ha colpito tanto l’apertura mentale; erano sempre benevoli e cordiali e, nonostante le differenze culturali, non vi erano paura o timori nei confronti di noi occidentali. La loro filosofia di vita è il “Mura Mura”, cioè la capacità di sorridere, di pazientare, di accettarsi gli uni con gli altri, uscendo dalla corsa affannosa verso la scala del successo, ma essere felici nella semplicità di vivere. Malgrado le condizioni di vita e le scarse risorse, non mancava mai il sorriso sui loro volti, un dono ormai dimenticato nella nostra società odierna.
Per concludere, volevamo ringraziare chi ci ha permesso di realizzare questo progetto, e di essere tornate con la consapevolezza per apprezzare anche le piccole cose che vengono spesso date per scontate. Ringraziamo quindi la Fondazione Archè, Change Onlus, Humanitas University e, ultima ma non meno importante, la popolazione malgascia, che ci ha accolte a cuore aperto.
Paola e Nadia